Il Compagno di banco

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Tutti noi abbiamo avuto un compagno di banco. Alle scuole elementari, medie, superiori. Spesso in quei banchi nascevano amicizie preziose e importanti. Talvolta, nelle medie e superiori, amori, qualche volta grandi amori. Ma al di là delle amicizie e degli amori, la vicinanza di un compagno era un modo per conoscersi più intimamente tra compagni/e di classe, un allenamento a nuovi modi pensare, a nuove consuetudini, a nuovi giochi, a  modi diversi di rapportarsi agli insegnanti o agli altri compagni, e anche a se stessi.

Anche il compagno di banco di un giorno, o di una settimana, di un mese, poteva essere un nemico che si imparava a conoscere e con cui si diventava amici; era un’altra anima con la quale, per la vicinanza forzata o desiderata, si era costretti a confrontarsi, calibrarsi, ritararsi, rispecchiarsi, riguardare dentro di se e dentro l’altro; e se non c’era altro modo, eventualmente, si imparava a difendersene, a starne lontani, a cercare compagni migliori. 

L’attrazione e l’amicizia, il futuro nella vita, la sessualità e la politica, i sogni, i soldi, il lavoro, le risate, non c’era argomento e area di vita che non venisse passata, prima o poi, al rigido setaccio di due compagni di banco, bambine/i o adolescenti. 

Nel mio caso ero l’eterno corruttore, quando “andavo bene” e quando “andavo male”, dalle elementari alle superiori, le più grandi e grosse risate della mia vita me le sono fatte coi compagni di banco, e non riesco a vedere niente di più sano di quelle risate ribelli che sfidavano ogni severità, compresa la violenza fisica, ogni rimprovero, nota, brutto voto.

Risate incontenibili che s’impadronivano di ogni lezione, argomento, scibile umano, e ne facevano polpette, corrodendolo della sua serietà, dall’interno, per innalzarsi in una divina gioia del vivere in se stesso, dell’esistere senza altri assilli, problemi, aspettative. 

Storia, economia, scienza, matematica, tutto diveniva magicamente qualcosa di cui ridere senza logica, senza scrupoli, freni, limiti. 

Col tempo gli insegnanti robotizzati hanno cominciato a separare, divivdere e ricomporre gli alunni e le alunne in base ai loro criteri, ai loro desiderata di attenzione e profitto, come se bambini e ragazzi fossero dei pacchi, bulloni e ingranaggi, ognuno al posto “giusto”, per rendere di più in quel rullo, quella postazione, nella catena di montaggio, nel loro ordine sempre più mortifero e totalitario dei crediti e del portfolio, dei debiti, termini che li indottrinano inconsciamente alla schiavitù della Borsa e della finanza, rigorosamente speculativa, come i pandemic bonds, contro cui nulla potranno. 

Adesso, col virus, anche il compagno di scuola sarà bandito per sempre.

Si vorrà associare al sospetto, al timore, all’offesa, ogni avvicinamento, ogni gioco, ogni amicizia, carezza, solidarietà, amore, perché si devono far crescere i bambini da soli, depressi, imbottiti di farmaci, diagnosticati fin da piccoli “per prevenire”, così si dice, e “anticipare le cure”, e se sopravviveranno e non si ribelleranno, se si venderanno come i loro insegnanti, i loro preti, genitori e politici, magari moriranno vecchi, magari pure ricchi, ma tristi, sconfortati, depressi, devastati e impauriti, senza aver mai veramente vissuto, senza essere mai stati liberi e insieme, insieme e liberi. Il ché forse è un’utopia, il cui equilibrio tra i due poli però è l’unica speranza perseguibile. 

Non c’è bisogno di parlare dei referti di morte fasulli, dei test farlocchi, delle costrizioni, imposizioni, censure, delle terapie (volutamente?) sbagliate, del tappare la bocca a uomini e donne libere, della corruzione, del lavaggio del cervello col terrore, dell’ignorare le cure esistenti, i dati veri su mortalità e contagiosità. 

Già questo vietare i compagni di banco, questo sottile, crudele, precoce insinuare l’obbligo della solitudine fisica, simbolica, inconscia, questo divieto di essere e di farsi amici, di toccarsi e di abbracciarsi, di scherzare e di rincorrersi, di dividersi la merenda, tutto questo dà già la misura della barbarie, ma il termine è troppo generoso perché la barbarie, della bestialità, della ferocia, ma i termini sono troppo generosi perché barbarie, bestialità e ferocia appartengono e riconducono alla natura, questo divieto del contatto e della vicinanza, questa mostruosa nuova normalità, già di per sé danno la misura, abnorme, dell’aridità, dell’inumanità, della putrefazione interiore di questi falsi medici, falsi politici, falsi insegnanti, e di tutti coloro che li sostengono e li appoggiano.

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